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Tuesday, June 17, 2025

“Bisognerà intervenire anche sulle toghe e sul senso di impunità” – Il Tempo



Giorgio Mulè (Vicepresidente della Digital camera deputato di Forza Italia)

Sono un collezionista, seriale direi, di minacce e insulti. Da quando sono stato eletto in Parlamento nel 2018 ne ho accumulati (e denunciati) migliaia. Vorrei condividere alcune riflessioni sull’atteggiamento che purtroppo ho constatato da parte della magistratura. Lo faccio dopo aver letto le minacce nei confronti della figlia di Giorgia Meloni, di quella di Matteo Salvini o delle altre indirizzate ai figli di Matteo Piantedosi o Antonio Tajani. Augurare alla figlia del nostro presidente del Consiglio di fare la stessa positive di una ragazza uccisa e quanto di più sconvolgente si possa pensare. Quando però un caso del genere finisce sotto la lente dei giudici succedono cose che noi umani facciamo molta fatica a comprendere.

 

 

Nel campionario di bestialità di cui sono destinatario, trova spazio una denuncia nei confronti di un «signore» che a commento di una mia dichiarazione scrisse letteralmente così su Fb (e mi scuso per le volgarità che seguono): «Coglione, pezzo di merda non offendere chi lavora Munnezza ti auguro di vedere morta quella puttana di tua madre». Per risalire all’identità del «signore», i carabinieri dovettero faticare e non poco. Ci riuscirono e inviarono il fascicolo alla procura della Repubblica. Riporto testualmente le conclusioni del pm sottoposte al gip. «Appare evidente come le prime espressioni riportate siano in insulti, come tali riconducibili alla fattispecie di ingiuria». Le parole «coglione, pezzo di merda, non offendere chi lavora Monnezza» potrebbero dunque essere perseguite per il reato di ingiuria. Potrebbero, perché questo reato essendo stato depenalizzato non è perseguibile. Si potrebbe procedere allora per diffamazione? Neanche questo. Il magistrato infatti ci spiega che: «L’indagato non risulta aver scritto sui social alcun put up, né a commento di contenuti inseriti dal denunciante, né sulla propria bacheca o altrove. L’indagato ha provveduto advert inviare un messaggio privato al denunciante». E quindi non c’è neanche reato di diffamazione perché, per esserci osserva il nostro acuto magistrato «occorre che colui che attenti all’altrui reputazione comunichi con più persone». Niente ingiuria, niente diffamazione.

 

 

Rimane il «pensierino» dedicato a mamma. Qui il pm scrive: «Con riguardo all’auspicio, grave, macabro di pessimo gusto, contenuto nella seconda parte del messaggio, giova rammentare il concetto di minaccia penalmente rilevante a più riprese ribadito dalla giurisprudenza della suprema corte quale “prospettazione di un male futuro, il cui avverarsi dipende dalla volontà dell’agente”. Appare evidente come quanto auspicato dall’indagato non sia rimesso al suo volere». In conclusione: si archivi il procedimento. Sono il primo a volere e credere alla necessità di una rivoluzione culturale. Ma bisognerà intervenire non solo dal basso ma anche da chi dovrebbe dare l’esempio e indossa la toga. Perché l’interpretazione delle norme può produrre un senso di impunità che è contrario prima ancora che al diritto alla civiltà.

 



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